martedì 3 luglio 2007

TAV, TUTTO QUELLO CHE VOLEVATE SAPERE SUL "BUCO" E CHE NON VI HANNO DETTO

Vi propponiamo questa lettera di un geologo che ha operato nelle aree del tracciato della TAV. L'ennesima prova che il parere semplice e documentato di un adetto ai lavori, fornisce maggior chiarezza di tanta prosa No-Tav dalla provernienza talvolta sospetta. Leggete e fatevi la vostra propria opinione. La lettera è firmata ma abbiamo ritenuto opportuno sopprimere ogni riferimento che possa permettere di individuare l'autore. I tempi sono grami come lo dimostrano i propositi e relazioni di alcuni siti e l'esperienza ancora fresca di chi si è opposto ai No-Tav.

TAV

Approfitto volentieri xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx per annoiarvi con alcune considerazioni “scientifico - divulgative” su uno dei temi ambientali più dibattuti negli ultimi anni in Piemonte, ossia il collegamento ferroviario ad alta velocità Torino - Lione, ossia la cosiddetta “TAV”. Su questo argomento si sono sentite molte cose, sui mass-media, e, in genere, non appena si è andati sul “tecnico - scientifico” hanno prevalso i toni catastrofici degli ambientalisti e degli pseudo-divulgatori, mentre le corbellerie e l’improvvisazione da parte della carta stampata, e dei giornalisti in genere, hanno raggiunto livelli penosi. Non ho la presunzione di essere un “esperto”; sono, molto semplicemente, un geologo, ossia un “tecnico” che, diversamente dallo “scienziato”, si guadagna da vivere non dietro una cattedra, ma applicando tutti i giorni la “scienza” che ha imparato, e nella quale cerca di tenersi aggiornato, non solo sui libri ma anche e soprattutto con la pratica e l’esperienza. Per brevità e chiarezza, cercherò di esporre le mie considerazioni sotto forma di domande e risposte, riprendendo alcune delle tematiche maggiormente dibattute.

Perché la TAV proprio in Val Susa?L’Italia è separata dal resto d’Europa dalle Alpi, ossia da una catena montuosa geologicamente giovane, impervia, accidentata: ne deriva che, per collegare l’Italia con l’Europa, le vie di comunicazione via terra devono, necessariamente, attraversare questa catena montuosa. Sin dall’antichità, i nostri progenitori hanno cercato la strada più agevole attraverso le Alpi, ossia un percorso che risalisse le montagne con il minor dislivello possibile. Le grandi vallate che incidono le Alpi sono, da questo punto di vista, dei “corridoi” preferenziali. La Valle di Susa è uno di questi, come dimostrato dal fatto che, sin dai tempi di Annibale, è stata la strada percorsa da eserciti, pellegrini, commercianti e, in ultimo, semplici turisti. Questo perché la Val Susa, a differenza di altre vallate, durante l’ultima era glaciale (tra 130. 000 e 15. 000 anni fa circa) è stata percorsa da un ampio ghiacciaio, largo quanto l’intera vallata e che, come un enorme bulldozer, l’ha incisa, allargata e spianata, spingendosi sino all’attuale Rivoli. Il risultato è che, rispetto alle valli adiacenti (Valli di Lanzo a nord, Val Chisone a sud), la Val Susa ha un ampio fondovalle pianeggiante e, soprattutto, ha una quota inferiore di circa 500 metri: ciò significa che, rispetto alle altre valli, risalire la Val Susa comporta dei dislivelli inferiori. Ciò è valido soprattutto per il trasporto ferroviario: mentre un’auto o un camion possono affrontare dislivelli notevoli (ci sono strade statali o provinciali che arrivano al 10% e oltre), un treno non può superare pendenze superiori all’1%, ed in genere non si deve superare lo 0,5 o addirittura 0,4% (ossia salire di 4-5 metri ogni chilometro di binari), perché altrimenti le ruote non fanno sufficiente attrito sui binari ed il treno, letteralmente, non ce la fa a salire. Ecco perché, già nel XIX secolo, si riuscì a costruire una linea ferroviaria da Torino sino a Bardonecchia (e comunque con non poche difficoltà), mentre nelle altre vallate, che sono più ripide, il treno dovette fermarsi a Ceres (Val di Lanzo) o a Torre Pellice (Val Pellice). Perché non si può potenziare la “linea storica”?Con il termine “linea storica” viene indicata la vecchia linea ferroviaria Torino - Bardonecchia, realizzata nella seconda metà del 1800 e che prosegue verso la Francia attraverso il traforo del Frejus. Innanzitutto, si tratta di una linea che è già ai limiti delle pendenze massime: in alcuni punti, per superare tratti particolarmente ripidi e con maggiore dislivello, la linea percorre addirittura delle rampe elicoidali in galleria; la pendenza del tracciato ed il raggio di curvatura delle gallerie elicoidali sono tali che eventuali treni ad alta velocità non potrebbero raggiungere la velocità massima, e quindi si perderebbe ogni vantaggio. Anche la sezione delle gallerie non è adeguata agli standard attuali, perché sono state progettate per i treni e le carrozze di 130 anni or sono, ma allargarle è tecnicamente difficilissimo; innanzitutto perché, dopo 130 anni, il rivestimento delle gallerie, in muratura e calcestruzzo, è in condizioni strutturali precarie, si è indebolito per effetto dell’umidità e delle vibrazioni connesse al passaggio dei treni, ed andarlo ad intaccare è un’operazione da fare con grande cura ed attenzione, altrimenti si rischia che il tutto crolli in testa a chi ci lavora. Così pure, anche la roccia nella quale sono state scavate queste gallerie, dopo 130 anni, si è allentata ed indebolita, con un fenomeno irreversibile di “invecchiamento strutturale” e di assestamento dell’anello di roccia, largo alcuni metri, che circonda il “buco” della galleria. Se si tocca il rivestimento, c’è il forte rischio che questo “anello” di roccia, allentato e strutturalmente “rilassato”, si fratturi sulla calotta della galleria, innescando il crollo di blocchi rocciosi ed aprendo delle cavità verso l’alto, il cosiddetto “sfornellamento”. Non solo: buona parte del tracciato della linea storica attraversa aree ad alto rischio idrogeologico, interessate da frane e dissesti gravitativi di enormi dimensioni, che all’epoca della costruzione della ferrovia (fine 1800) non erano ancora noti, ma che oggi sono ben conosciuti e monitorati. Ad esempio, tra Exilles e Salbertrand la ferrovia si inoltra in galleria per superare questo tratto della vallata, che si stringe un una stretta gola dovuta ad una enorme frana che interessa il versante sinistro (ci passa, con notevoli problemi, la galleria autostradale di Serre la Voute), tuttora in fase di lento assestamento, e che in passato ha sbarrato l’intera vallata originando, a monte, un bacino lacustre, ove ora sorge la piana di Salbertrand (autogrill). Sul versante opposto, la grande frana del Cassas, attivatasi nel 1957, ha raggiunto il fondovalle, ed è anch’essa tuttora in fase di assestamento. Ebbene, la galleria ferroviaria sbuca dalla montagna ad una quota di soli 4 (quattro) metri rispetto all’alveo della Dora Riparia: se la frana di Serre la Voute si riattivasse all’improvviso, sbarrerebbe la gola ed il torrente che, per defluire, si riverserebbe in breve tempo nella galleria ferroviaria, trasformandola in una enorme condotta forzata. Ecco perché la linea storica può essere sì “migliorata”, ma non può comunque essere trasformata in qualcosa in grado di sostituire una vera linea veloce. In ogni caso, i lavori di adeguamento, per la delicatezza della situazione strutturale delle gallerie, richiederebbero tempi (e costi) spropositati, e soprattutto non sono attuabili senza interrompere in modo significativo il traffico: come si fa a impiantare un cantiere in una gallerie larga pochi metri, ed a lavorarci in condizioni minime di sicurezza, se devono comunque passarci i treni? Davvero c’è l’uranio? Le Alpi, come tutte le catene montuose, sono nate per effetto dello scontro, alla scala dei tempi geologici, tra masse continentali o “zolle”, in questo caso tra l’Europa e l’Italia, che geologicamente è una “propaggine” della zolla africana. Per effetto di questo scontro, enormi masse di roccia sono state sovrapposte, impilate le une alle altre, piegate e deformate, ed infine sollevate sino alle quote attuali; nel corso di questi processi, le pressioni e le temperature cui sono state sottoposte le rocce ne hanno profondamente alterato la struttura, la composizione e l’aspetto; in particolare, le originarie stratificazioni, ove presenti, sono state deformate e piegate, e gli strati schiacciati, stirati ed “impastati”. Alcune delle masse rocciose coinvolte nella genesi delle Alpi contenevano, localmente, delle concentrazioni di uranio: questo perchè le acque piovane, milioni di anni fa, hanno dilavato l’uranio contenuto in antichissime rocce vulcaniche (come quelle presenti oggigiorno nell’Italia centrale), concentrandolo poi in stratificazioni di arenaria sul fondo marino. Queste formazioni rocciose sono state coinvolte nella formazione delle Alpi, ed in effetti hanno mantenuto, in alcuni casi, delle concentrazioni di uranio rilevabili dagli strumenti (es. Lurisia nel Cuneese); nella maggior parte dei casi, tuttavia, gli strati originari contenenti uranio sono stati deformati, “stirati” e schiacciati a tal punto, durante i processi di formazione della catena montuosa, che oggi non sono più riconoscibili nella loro continuità iniziale. Ne è la riprova il fatto che, a fronte di qualche rinvenimento di puro interesse accademico e da collezionisti di minerali, non sono mai state rinvenute, nelle Alpi occidentali, concentrazioni di uranio di dimensioni sufficienti a consentire il benché minimo sfruttamento industriale, e questo anche in periodi in cui la manodopera non presentava i costi attuali.

Nel caso della TAV, la “stratificazione” (o meglio, ciò che ne rimane) delle rocce potenzialmente contenenti uranio verrà attraversata diagonalmente e trasversalmente dalla galleria in progetto, così che eventuali “vene” di minerale, di spessore decimetrico, costituirebbero una percentuale minima del volume di roccia da scavare.

Davvero c’è l’amianto?Come abbiamo visto, le Alpi sono nate dallo scontro tra l’antico continente europeo e l’Italia che, geologicamente, costituiva una propaggine dell’Africa. Tra i due continenti era presente un oceano, che è stato schiacciato sino a scomparire. Le rocce magmatiche presenti sul fondo di quell’oceano, ricche di minerari di ferro e magnesio (e dette pertanto “femiche” dai geologi) sono state trasformate in una roccia bluastra, compatta e massiccia, di cui è costituito ad esempio il Musinè, come pure altri settori della bassa Valle di Susa (es. la Sagra di San Michele, il Colle del Lys, ecc), così come delle Alpi (es. il Monviso, le Valli di Lanzo, ecc…). Queste rocce vengono chiamate “serpentiniti” quando i minerali che le costituiscono si trasformano in “serpentino”, un minerale particolare che, come dice il norme, assume l’aspetto della pelle di un rettile; lungo le fratture, le faglie e le spaccature che attraversano la roccia, la circolazione d’acqua, che si infiltra nel sottosuolo, può trasformare il serpentino in una sua forma speciale, un minerale dall’aspetto fibroso di colore biancastro, denominato “asbesto” o “amianto”: se ne rinvengono diffusamente campioni in località turistiche come il Colle del Lys, tra Val Susa e Valle di Viù, come pure al “Pian del Re”, presso le sorgenti del Po. Per la sua resistenza meccanica ed al fuoco, oltre che per la possibilità di essere tessuto a formare delle stoffe, l’amianto veniva utilizzato in molte applicazioni (es. il famigerato “Eternit”, ma anche le tute dei pompieri, le pastiglie dei freni delle auto ed i dischi delle frizioni, addirittura veniva aggiunto al cartone utilizzato per le scatole della pasta); le fibre più piccole, tuttavia, possono essere inalate e, se raggiungono i polmoni, possono innescare alcuni tipi di tumore: per questo motivo, l’amianto è stato progressivamente messo al bando. Nell’ammasso roccioso, tuttavia, l’asbesto si forma solo in corrispondenza a fratture, faglie e discontinuità lungo le quali la circolazione d’acqua ha potuto alterare la roccia originaria; ecco perché, nel caso della galleria della TAV, solo un 10% circa, come ordine di grandezza, della roccia scavata, è interessata dalla possibile presenza di minerali asbestosi, che costituiscono comunque una percentuale minima rispetto all’ammasso roccioso. A titolo di paragone, nella miniera di amianto a cielo aperto di Balangero, presso Lanzo (xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx), il contenuto di fibra di amianto della roccia era dell’ordine del 5%: se nella bassa Valle di Susa ci fossero state concentrazioni maggiori di minerale, le miniere sarebbero state aperte lì, e non a Balangero. Inoltre, separare l’amianto dalla roccia è tutt’altro che facile, anzi: a Balangero, la roccia serpentinosa doveva innanzitutto essere frantumata e letteralmente “macinata” sino a ridurla in una specie di sabbietta di dimensioni millimetriche; essa veniva poi cotta a circa 200 °C (duecento gradi) in appositi forni, ed infine l’amianto veniva estratto facendola passare sotto degli enormi “aspirapolvere”. Tutti trattamenti che, nel caso dello scavo della galleria della TAV, ovviamente non verranno effettuati: la “fresa” o “talpa meccanica” che scaverà la galleria, infatti, è progettata e costruita per frantumare la roccia in pezzi di dimensioni decimetriche, quanto basta per trasportarli con dei nastri e/o vagoncini, perché una frantumazione più spinta sarebbe del tutto inutile e si tradurrebbe in un puro e semplice spreco di energia. Così pure, nessuno si sognerebbe di “cuocere” la roccia così frantumata. In ogni caso, per impedire la possibile dispersione in aria di fibre di amianto da quel 10% circa di roccia frantumata dalla fresa che potrebbe contenerne, è sufficiente inumidirla, eventualmente con acqua cui vengano aggiunti dei collanti organici biodegradabili, che sono stato utilizzati con successo a Balangero per “bonificare” le enormi montagne di materiale sterile (alcuni milioni di metri cubi) residuo dell’attività della miniera nel secolo scorso. In ultimo, si deve osservare che la “galleria di base”, ossia il tunnel principale tra Susa e la Francia, verrebbe scavato in rocce di tipo radicalmente diverso da quelle in cui si forma l’amianto, e quindi è da escludere la possibilità di trovarne; potrebbe essercene invece, come si è visto, in circa il 10% della roccia attraversata dalla galleria sotto il Musinè: se il fondovalle, in questo tratto della Val Susa, non fosse stato cementificato ed urbanizzato disinvoltamente, nei decenni trascorsi, riempiendolo di aree edificate, non ci sarebbe nessun bisogno di scavare una galleria sotto il Musinè, perché la nuova linea potrebbe correre tranquillamente a cielo aperto, per di più con costi 10 volte inferiori. In ogni caso, la possibile presenza di amianto (e in altre zone di uranio), che oggi tanto spaventa qualcuno, non ha impedito agli abitanti ed amministratori della Val Susa di riempire la vallata di case, casette, villette e rustici allegramente riadattati ed ampliati, spesso costruiti proprio sopra (o addirittura “con”) quelle rocce che qualcuno afferma essere piene di mortali veleni: a meno che non si tratti di costruzioni e ristrutturazioni abusive, nel qual caso chi oggi si vanta tanto di difendere il proprio territorio, dovrebbe forse fare un po’ di autocritica per non avergli prestato, in un passato nemmeno troppo lontano, una attenzione altrettanto scrupolosa. Così come sembra difficile conciliare questa improvvisa, esasperata foga ambientalista con il fatto che parti non indifferenti, ed anzi sostanziali, dei centri abitati della valle risultano essere state costruite, nei decenni trascorsi, in aree a forte rischio idrogeologico, in quanto soggette a frane, alluvioni e simili, per non parlare dell’assetto urbanistico e della “tutela del paesaggio”, per i quali eventuali raffronti e confronti della Val Susa non tanto con l’Himalaya o altre esotiche località “incontaminate”, ma anche solo con il Tirolo, la Svizzera o le Dolomiti, si risolverebbero probabilmente in impietose e dolorose conclusioni. E non vogliamo assolutamente dare retta a chi, maliziosamente, vorrebbe suggerire un controllo incrociato, tra catasto, anagrafe e verbali dei consigli comunali, per scoprire eventuali omonimie e/o parentele (sicuramente fortuite e del tutto casuali) tra amministratori locali e proprietari di quei terreni agricoli e boschivi che, nei decenni passati, sono stati trasformati, con positivistico entusiasmo, in aree edificabili ed industriali…

(lettera firmata)

Senz'altro ringraziamo e detto en-passant, ma qualcuno ci sa dire qual è la differenza tra avere decine di treni ad alta velocità in Francia, in Germania, in Giappone o in Cina ed averne due etti e un cicinin' in Italia? Noi la risposta la conosciamo : stare meglio sprofondando nel peggio. Ma non mancherano i No-Tutto, come al solito di perorare sulle loro ultime ferie nei paesi sopracitati, esterofili come sempre, narrando di quando hanno lasciato Parigi e i suoi croissant a colazione per una Bouillabaisse a mezdì sulla Canebières, dopo una passeggiata à la Croix-Rousse. Ma è sempre poca roba a confronto con quando ti raccontano del vicino che passò ventanni fa da Tokyo a Yokohama senza neanche accorgersene e comunque non supererà mai il viaggio organizzato con il loro sindacato previsto per il 2010: Beijing-Shanghai in mattinata.

Dopotutto siamo il paese dello Slow-Food, e per quanto riguarda i "Fast-Trips", l'ultima iniziativa della Turco è stata bocciata dal Tribunale Amministrativo!


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